37. Keith
Langford -
€1.15 million euros net ($3.0 million NBA salary)
38. David Andersen - €1.15 million euros net ($3.0 million NBA salary)
39. Henry Domercant - €1.15 million euros net ($3.0 million NBA salary)
40. David Hawkins - €1.15 million euros net ($3.0 million NBA salary)
38. David Andersen - €1.15 million euros net ($3.0 million NBA salary)
39. Henry Domercant - €1.15 million euros net ($3.0 million NBA salary)
40. David Hawkins - €1.15 million euros net ($3.0 million NBA salary)
Quella
che avete appena letto è una classifica, o meglio, una porzione che
va dalla 37° alla 40° posizione, e che riguarda i giocatori più
pagati d'Europa nella stagione 2012/13. Due anni fa, più o meno.
Cifra
consistente, non certo utile nel valutare l'impatto che avrà su
Caserta, ma sicuramente indicativo del percorso che ha seguito con
assoluta caparbietà questo ragazzo, nato e cresciuto a Chicago, e
consacratosi nel Vecchio Continente.
I
genitori si trasferirono in America negli anni '70, lasciando povertà
e miseria nella natìa Haiti. La vita negli Stati Uniti sorrise ai
Domercant, che trovarono stabilità e sicurezza, ma la sorte è
imprevedibile, e come tale, costrinse Henry a fare a meno della
figura paterna ad appena 7 anni, a causa di un'incidente d'auto.
La
tappa successiva per lui fu Naperville, Illinois. Cittadina tra le
migliori dell'intero Mid West per vivibilità, e tra le tante
strutture ospitate, una High School estremamente nota per il
contributo allo sport professionistico statunitense tra football e
“soccer”, meno per il basket. Molto meno.
Anche
per questo le sue straordinarie cifre gli “regalano” solo un
invito in un piccolo-medio college della Nazione, Eastern Illinois.
Ed
è proprio nei 180 kilometri che percorre verso Sud che Henry
Domercant conquisterà la ribalta negli USA prima, e in Europa poi.
“His
work ethic stands out above anyone else I’ve played with”
Nel 1999, quando s'iscrive
all'Università, Henry non porta in dote una fisicità pazzesca o
l'altezza, e neppure un solido background di esperienze tecniche e
tattiche.
Quando uscirà, nel 2003,
sarà solo l'altezza a difettargli, e credetemi: se fosse stato
anche solo minimamente possibile lavorarci su, sarebbe diventato un 7
piedi.
La frase che apre il
paragrafo è di Matt Britton, point guard che accompagnò Henry nelle
sue stagioni da Freshman e sophomore, e che imbeccò più di una
volta il dinamic duo più dominante mai visto a quelle latitudini,
composto dal nostro, e da Kyle Hill (che non solo
abbiamo visto in Italia, tra Biella e Udine, ma stesso nello
Spaghetti circuit riuscì a rendersi protagonista di un altro
“dinamic duo”, indimenticato in Friuli, con Jerome Allen).
Domercant, partito
sfruttando il mero (e sconfinato) talento, è cresciuto di anno in
anno in maniera così esponenziale, che se potessimo tornare indietro
nel tempo, e mostrassimo agli alumni di EIU le carriere del nativo di
Chicago e del gemello Hill, vi prenderebbero in giro, perchè è
evidente che avete confuso i nominativi.
La sua etica lavorativa
risultava così incredibile per chi si trovava intorno a lui, che era
impossibile non seguirlo ovunque. Divenne il leader dei Panthers, sia
emotivo, sia realizzativo. E come scorer riuscì a diventare il
migliore della Conference, e poi della Nazione, in un autentico
climax, sfruttando l'arma che più di ogni altra l'ha
contraddistinto: il jump shot.
E lo stesso jump shot e
la sua maturazione, è il più fulgido esempio di che razza di
lavoratore il nostro Henry sia.
“Coach, cosa posso fare
per diventare un giocatore migliore?” - è la domanda di un
15enne di Chicago posta al coach degli Huskies di Naperville,
Mark Tindo.
“Metter
su un jump shot affidabile”, rispose lui.
Un anno, tanto gli bastò per riuscire nel dettame del suo allenatore, che allora fu costretto a rilanciare: “Ottimo lavoro, ma se vuoi diventare un gran giocatore, devi metter su un jump shot livello NBA”.
Ancora un anno di HS, e Henry mostrò all'intero Illinois di non avere eguali in questo fondamentale. E non smise certo di migliorare.
Un anno, tanto gli bastò per riuscire nel dettame del suo allenatore, che allora fu costretto a rilanciare: “Ottimo lavoro, ma se vuoi diventare un gran giocatore, devi metter su un jump shot livello NBA”.
Ancora un anno di HS, e Henry mostrò all'intero Illinois di non avere eguali in questo fondamentale. E non smise certo di migliorare.
Fu proprio
Tindo a consigliargli coach Samuels ed EIU, con cui firmò ancor
prima di diplomarsi, in segno di riconoscenza.
“With
the game on the line and 2.8 seconds left, Britton was bloodied while
being fouled. Samuels called on walk-on freshman guard Chris Herrera,
who had sat the entire game, to go to the line for Britton. Herrera
swished both free throws. That
morning he had made 100 shots with Domercant.”
Coach
Rick Samuels, dal 1980 a Charleston, era noto per essere uno
dei migliori degli Stati Uniti nello sgrezzare e lanciare giocatori
prodotti da “piccoli mercati”. E quando Henry arriva, lo stesso
Samuels sa di avere tra le mani un pezzo pregiato. Come giocatore e
come uomo.
Sceglie
di vivere lontano dalle distrazioni del dormitorio del Campus, da
solo. In camera ha una bandiera haitiana da un lato, e i suoi
racconti dall'altro. Scrittore nel tempo libero, o almeno, in
quel poco che non consacrava alla Lantz Arena, terreno di gioco dei
Panthers.
I suoi
allenamenti mattutini fuori orario divennero, nel giro di pochi mesi,
frequentati dall'intera squadra, tutti seguivano “Oh, Henry”
(nickname ai tempi del College, c'entrano delle barrette di cioccolata) e la sua etica lavorativa. E la
citazione in grassetto poco più in alto è forse il manifesto del
ruolo di Domercant in quella squadra.
Il
talento offensivo spropositato, unito a quella forza mentale e
all'essere il miglior realizzatore dell'intera NCAA nel suo anno da
Senior, furono le componenti che gli permisero l'accesso nell'Hall of
Fame di Eastern Illinois, ma non bastarono a rendere l'haitiano un
candidato credibile per uno spot in NBA: troppo basso, il responso
degli scout.
Per
lui allora inizia la peregrinazione, ad alto livello, in Europa.
Le
cifre stellari da Rookie in Turchia, al Pinar, rendono il
ragazzo appetibile per mezza Europa, ma a spuntarla e l'Efes
di Instanbul, a suon di quattrini, ottimamente spesi.
Vince il suo primo trofeo, il Campionato Turco, e l'anno seguente la Coppa Nazionale.
La tappa successiva è il Pireo, l'Olympiakos, di cui si innamora per “la vicinanza al mare”.
Di qui in poi è tutto un viaggiare tra alcuni dei luoghi più incredibili d'Europa: Mosca, Siena, San Pietroburgo, e infine il ritorno ad Instanbul, al Galatasaray.
Vince il suo primo trofeo, il Campionato Turco, e l'anno seguente la Coppa Nazionale.
La tappa successiva è il Pireo, l'Olympiakos, di cui si innamora per “la vicinanza al mare”.
Di qui in poi è tutto un viaggiare tra alcuni dei luoghi più incredibili d'Europa: Mosca, Siena, San Pietroburgo, e infine il ritorno ad Instanbul, al Galatasaray.
In
questi 12 anni in cui ha raggiunto quasi ogni traguardo disponibile,
compreso lo sfizio di prender parte ad una competizione
internazionale con la canotta della Bosnia, ha continuato a lavorare,
ad adattarsi, passando da scorer puro a tiratore di striscia, fino ad
essere uno specialista da 19' a partita nella Siena di Pianigiani (e
nonostante l'impiego limitato, ottenne un posto nel secondo miglior
quintetto dell'Eurolega).
Al Kazan ha forse vissuto una delle sue migliori stagioni, e il Gala ha dovuto versare un sostanzioso bonifico per ottenerne le prestazioni, due anni fa.
Un brutto infortunio, il recupero, ma all'alba del 2014 ancora una volta nella sua carriera, non hanno creduto in lui. E ora l'opportunità la offre Caserta, probabilmente il contesto più difficile, la sfida più ardua. Deve salvarci, e solo Dio sa quanto dovrà lavorare per farlo.
Al Kazan ha forse vissuto una delle sue migliori stagioni, e il Gala ha dovuto versare un sostanzioso bonifico per ottenerne le prestazioni, due anni fa.
Un brutto infortunio, il recupero, ma all'alba del 2014 ancora una volta nella sua carriera, non hanno creduto in lui. E ora l'opportunità la offre Caserta, probabilmente il contesto più difficile, la sfida più ardua. Deve salvarci, e solo Dio sa quanto dovrà lavorare per farlo.
(Chiudiamo con il riferimento musicale presente nel titolo, che ormai ci siamo presi l'abitudine e pare brutto)
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