mercoledì 12 agosto 2015

SAVING MR. SIVA


"Ho bisogno di te"

Era il 2005 quando un ragazzino appena 13enne, alla guida della Dodge del fratello maggiore, prese a girare per le strade più malfamate di Seattle.
Non aveva il permesso di essere lí, nè tantomeno l'età legale per essere alla guida, non conosceva le strade, ma aveva una meta, questo sì.
Una stanza del buco che da fuori avrà visto decine e decine di volte.

Arriva, inchioda, parcheggia.

Il destinatario di quelle quattro parole che aprono il pezzo e che suonano come un cazzotto ben assestato, arrivano in pieno volto ad un ex kickboxer che pure doveva averne prese tante nella vita, ma quella notte colpirono forte dove faceva più male.

"Ho bisogno di te, papà".

Papà, tuo padre, con la solita dose in una mano, ma nell'altra una pistola carica e tanta voglia di chiuderla qua.
"Voglio finirla, sono pronto ad andarmene"
"È così egoistico da parte tua, non essere stupido, papà"

Quel giorno, Siva Sr., lasciando cadere la pistola e salendo sul sedile del passeggero, capì che per il ragazzino, per il suo ragazzino, valeva la pena di vivere la sua vita lontano da alcool e crack.

Quel ragazzino era Peyton Siva jr., nato alle idi degli anni '90 a Seattle in una difficilissima famiglia di origine samoane.
Madre che si arrabattava tra mestieri e mestierucoli per sbarcare il lunario, padre alcolista e tossicomane, altri due figli, di cui una che entrava e usciva dalle boutique dello Stato di Washington accompagnata dalla Sicurezza.
In questo contesto, Peyton ha scoperto prestissimo l'importanza di stare lontano da quella dannata strada, fatta di gang e di violenza, di puttane e di morti ammazzati.
È così che comincia ad ospitare in casa nei weekend gli amici del quartiere, in una sorta di rifugio contro tutte quelle cose da cui un bambino non deve difendersi, ma va difeso.
Si carica sulle giovani spalle la famiglia, gli amici, un'intera comunità, vuole salvare tutti. Ma per farlo deve trovare una via di fuga.
Che negli USA lontani dalla ricca borghesia e dal sogno americano, è spesso una sola.
Lo sport.

Football, basketball, poco importa, il ragazzino eccelle.
È piccolo, uno scricciolo, lavora duro.
E alla fine a spuntarla è la pallacanestro.

"Verità. Unità. Onore."
 
Verità, unità, onore. È questo il motto della Franklin High School di Seattle, istituto che ospitó Peyton quando la sua carriera era tutt'altro che iniziata. Carriera che, a posteriori, meglio non potè iniziare.
All American, Giocatore dell'anno, Mr. Basketball dello Stato di Washington.
Giusto per dire che parlare di dominio nel suo quadriennio ai Quackers è anche riduttivo.
Un ragazzo che la Verità l'aveva conosciuta troppo presto, purtroppo o per fortuna, e che del riscattare l'Onore suo e della sua famiglia, ne aveva fatto una questione di vita.
A farla da padrone peró, era il concetto di Unity. Unità. La storia delle cinque dita che insieme formano un pugno.
Se c'è una caratteristica che fin dal primo anno a Louisville non ha mai nascosto di avere, è l'idea di basket come "pass first", passala prima di qualsiasi altra soluzione. Coinvolgi i compagni, accompagnali, assecondali, spronali, basta un passaggio, che è un po' un'investitura. "Mi fido di te".

Presentarsi alla corte di Rick Pitino quando a far sfracelli nel tuo ruolo c'è uno dei migliori prospetti della Nazione, non è semplice. Ed Edgar Sosa era senza dubbio uno dei migliori prospetti nel suo ruolo.
L'anno dopo ha già raccolto le redini dei Cards dalle mani del dominicano, finito a Biella per esordire tra i pro. I 28' a gara, sempre o quasi in quintetto, sono più di un passaggio di consegne, e la risposta del giovanotto è più che soddisfacente, fino all'assaggio di March Madness, la quale non sapeva ancora di aver trovato uno che, di lì a poco, avrebbe messo una firma indelebile nel college basketball.

Louisville. Cardinals. Rick Pitino.
Pochissime equazioni sono più immediate di questa nel college basket, ed il sistema applicato alla Freedom Hall prima, e alla Yum! KFC Arena poi, è uno dei più rispettati del Paese.
Ed il fatto di trovarsi a 80 miglia o poco più da Lexington, Kentucky, e da uno dei programmi più ricchi e vincenti degli USA, ha generato anche una delle più forti rivalry della NCAA.

Peyton entra nel suo terzo anno con il compito di entrare nella storia dei Cards. E per farlo dovrà fare qualcosa di assolutamente non convenzionale.



La prima parte di stagione è un crescendo rossiniano, poi qualcosa s'inceppa, Peyton perde lucidità, cala vistosamente.
Coach Pitino decide di intervenire.
Basta con le attività extra-scolastiche, studio e basket e null'altro, "se serve chiameró io la tua ragazza per conto tuo".
Arriva la concentrazione, arrivano i risultati, trionfo in Big East e nuovamente al grande ballo.
Una danza inarrestabile che li conduce fino in finale. Non oltre.
L'ostacolo veste di Blue, recluta i migliori liceali del paese, e Calipari li gestisce come meglio non si potrebbe. Ah, e ha sede a Lexington.
Kentucky trionfa davanti ai rivali, l'onore sbiadito, l'orgoglio ferito, l'estate è durissima da superare.

“Ha così a cuore gli altri che il mondo intero non riesce a far meno di amarlo".

Quante probabilità ci sono per una squadra di arrivare due volte consecutive in finale? 
Poche.
Quante invece, le probabilità che la stagione non sarà all'altezza del "quasi miracolo" dell'anno prima? 
Molte.
La logica peró va a farsi fottere e Peyton resta per l'ultimo anno con i Cards.
Ne è il capitano, il leader, e ha troppo a cuore le sorti degli altri per mollarli proprio ora.
Come quel ragazzino che a Seattle strappava il padre dalla droga e i bambini dalla strada.
Si carica sulle giovani spalle i compagni di squadra e l'ateneo intero, è più forte di lui provare a salvare tutti. Qualsiasi sia l'ostacolo.

E il cammino dei Cards nel marzo 2013 procede in un campo minato attraversato da bendati.
Kevin Ware è protagonista del peggiore degli infortuni, uno spettacolo quasi splatter che spaventa l'America e chiude la sua stagione.
Nel match successivo Louisville si raccoglie, "Unity", e annichilisce Duke infliggendole il peggiore dei passivi subiti nell'era Krzyzewski.
In semifinale arriva uno dei team rivelazione, Wichita State, e neppure il giorno prima, l'ala Luke Hancock viene a sapere che il padre gravemente malato, sarà ad assistere alla gara. Luke ne mette 20 e porta i suoi in Finale del Torneo, e nella storia della NCAA.

La Finale. C'è Michigan.
L'ultima gara di Siva con Louisville, la sua Louisville.
I compagni si sono stretti in un pugno mortifero, ma il cazzotto decisivo deve infliggerlo lui, e nessun altro.
Non saranno quattro parole come a Seattle nel 2005, ma diciotto, i punti a referto che gli consentiranno di inserire il proprio nome nella storia della NCAA, nella storia di Louisville, e in quella del giovane ragazzino che vedeva un futuro diverso per le persone che amava.
 

Conclusa la stagione, la scelta 53 al draft non gli consente il passaggio nella Lega, oltreoceano piovono richieste, ma lui vuole il suo posto lì dove merita.
Lotta nella D-League, la chiamata non arriva, l'hype è sbiadito.
L'Europa chiama, e il prefisso è 0823.
Siva risponde, è pronto.
Lo è sempre stato.

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