Vi racconto, per
quanto possibile e dal mio punto di vista, un po’ di quello che è
accaduto domenica scorsa. Lo faccio dando i numeri.
Prima il tredici.
“Ho portato con me da voi: il calore, l’affetto e un’amicizia che non scorderò mai”.
Ci
sono ricordi che conserviamo dentro di noi per sempre. Per esempio?
Questa frase, pronunciata dal Re ai suoi tifosi 13 anni fa, quando il
palazzo si è infiammato per l’Oscar Game. Quel giorno speciale del 2003
sul campo di Castel Morrone c’erano alcuni dei suoi più illustri ex
compagni: Nando, Vincenzino, Sandro e non solo. C'erano anche avversari
di mille battaglie, c’erano i tifosi di sempre e c’erano pure giovani
appassionati che per la prima volta sentivano annunciare il suo nome
attraverso la voce dello speaker Mercogliano. Forse per questo, per
l’emozione e per l’occasione particolare, all’epoca Oscar non se la
sentì di sfogarsi e tirare fuori quel camion di rabbia che aveva dentro
da 13 anni. Lo ha fatto però 13 anni dopo, senza lasciar spazio alle
lacrime, fatta eccezione per gli occhi lucidi che qualcuno ha notato al
momento del saluto con Boscia nel tunnel, davanti all’immagine del
Cavaliere (il video qui).
Non tutti si aspettavano questa rabbia,
13 anni dopo l’ultimo incontro. Non ce lo aspettavamo neppure noi
dello staff, che domenica mattina abbiamo allestito in tutta
tranquillità la postazione per l’intervista da fare prima dell’evento.
In tutta tranquillità non proprio: tredici caffè a testa e qualche
massaggio cardiaco, perché oh, stava per arrivare il più grande di
tutti. Tremarella per tutti, e pure forte. Comunque, il Re arriva. Noi
proviamo i microfoni, sistemiamo le reflex. Finiscono le foto di rito, è
tutto pronto.
Poi il quattordici.
Prima di sedersi per
l’intervista, Mao santa firma gli ultimi autografi. Tutti con il 14, il
numero che indossava in nazionale. Non è un caso per uno come lui:
l’appartenenza è tutto, perciò in qualsiasi parte del mondo O Rey lascia
un segno del suo Brasile quando firma. Gli facciamo notare che anche
sulla t-shirt celebrativa dell’evento OscarIsBack c’è il suo autografo
con il 14. “Certo, questo è il mio numero” ci risponde con un ghigno.
“Prego Re, accomodati”.
“Chi fa le preguntas?”.
“Io”.
“Va bene”.
Dopo
aver accettato, senza molto entusiasmo, che sia io ad intervistarlo, il
Re si accomoda sulla poltrona presa in prestito dal presidente Iavazzi.
Ma nell’espressione del viso c’è qualcosa di diverso e lo notiamo
tutti, subito. Penso: sarà la stanchezza. Quindi, dopo l’intro, procedo
con la più banale delle domande d’apertura: come stai?
Banale, la
sua risposta, proprio non lo è. Così in un amen, Oscar torna indietro
di quasi trent’anni e comincia a raccontare di quando il presidente
Maggiò lo trattenne a Caserta, respingendo l’assalto del Real Madrid,
che voleva portare la Mano santa in Spagna con un triennale che avrebbe
fruttato al brasiliano gli stessi soldi che all’epoca, sempre al Real,
guadagnava Dražen Petrović. Quelle due macchine da guerra, vincenti
com’erano, avrebbero conquistato tutto in scioltezza, insieme. Ma il Re
rimase nella sua reggia, con un accordo per quattro anni che la Juve,
però, non ha rispettato. E questo ha fatto imbestialire il signor
Schmidt, e lo fa imbestialire tuttora.
Dopo la morte del
Cavaliere e l’ennesima disfatta della Phonola ai playoff, Oscar venne
letteralmente mandato via. Tutto si decise nella cena successiva
all’ultima sconfitta stagionale, maturata in casa – indovinate di chi? –
della Scavolini Pesaro. Anche in quell’occasione il Re non segnò poco:
37 punti, più di Gentile ed Esposito messi insieme. Ma alla fine, il
capro espiatorio divenne lui. “Un complotto dei giocatori”, dice il Re
con il fuoco negli occhi. E in più, una clausola contrattuale lo
obbligava a lasciare l’Italia, o scendere di categoria. Lui scelse di
restare nel Belpaese a cui era tanto legato, al pari della moglie
Cristina. Digerendo a fatica – per usare un eufemismo – l’esilio forzato
da Pezza delle noci.
Lo sfogo che Oscar ha avuto davanti alle
telecamere – come con noi anche con Paola Ellisse per SkySport, idem con
Ettore De Lorenzo per la Rai – gli è servito per mettere in chiaro
alcune cose. Ma non per sbollire quella rabbia che porterà ancora
dentro. Perché per uno come lui le sconfitte pesano molto più delle
vittorie.
Qualche altro autografo, qualche altro quattordici, e poi di corsa sul parquet.
Infine il diciotto.
Lo speaker, sempre lui, l’inimitabile Gennaro Mercogliano, annuncia il suo nome.
“Eeeee con il numero diciooooottooooo… Oscaaaaaaar”.
Il
Re sfila sul suo parquet, saluta i suoi tifosi, riceve la cittadinanza
onoraria e celebra l’ingresso nella hall of fame italiana. Al termine di
una partita brutta da vedere, entra nel suo tunnel, torna a visitare il
suo palazzo, si trattiene con il suo amico Carlo Giannoni e con il suo
coach Boscia Tanjevic. Poi parla ancora in conferenza stampa nella sala
Clinic, con i giornalisti casertani. E quando è calato il buio a Castel
Morrone, va via, ricco di emozioni.
Oscar sarà il Re di Caserta fin quando esisterà Caserta.
Verrà
ricordato perché piangeva e faceva canestro, certo, ma anche per la sua
capacità di fare canestro e far sorridere. Per i pugni agitati verso la
curva, per la canotta numero diciotto ritirata, per la bontà d’animo
mostrata anche fuori dal campo, per aver scelto Caserta prima di tutto
il resto, anche prima di soldi e trofei. Per la passione verso
l’allenamento. Per l’amore dato e per quello messo in circolo nei
confronti della pallacanestro, in una città che di pallacanestro
dovrebbe poter vivere per l’eternità.
Oggi ci tocca metabolizzare
le sue parole, incassare un pugno nello stomaco e soffrire perché
quello scudetto lo abbiamo vinto senza di lui.
Marco Petriccione
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