giovedì 22 dicembre 2016

TREDICI, QUATTORDICI E SOPRATTUTTO DICIOTTO

 
Vi racconto, per quanto possibile e dal mio punto di vista, un po’ di quello che è accaduto domenica scorsa. Lo faccio dando i numeri. 

Prima il tredici. 

“Ho portato con me da voi: il calore, l’affetto e un’amicizia che non scorderò mai”. 

Ci sono ricordi che conserviamo dentro di noi per sempre. Per esempio? Questa frase, pronunciata dal Re ai suoi tifosi 13 anni fa, quando il palazzo si è infiammato per l’Oscar Game. Quel giorno speciale del 2003 sul campo di Castel Morrone c’erano alcuni dei suoi più illustri ex compagni: Nando, Vincenzino, Sandro e non solo. C'erano anche avversari di mille battaglie, c’erano i tifosi di sempre e c’erano pure giovani appassionati che per la prima volta sentivano annunciare il suo nome attraverso la voce dello speaker Mercogliano. Forse per questo, per l’emozione e per l’occasione particolare, all’epoca Oscar non se la sentì di sfogarsi e tirare fuori quel camion di rabbia che aveva dentro da 13 anni. Lo ha fatto però 13 anni dopo, senza lasciar spazio alle lacrime, fatta eccezione per gli occhi lucidi che qualcuno ha notato al momento del saluto con Boscia nel tunnel, davanti all’immagine del Cavaliere (il video qui). 

Non tutti si aspettavano questa rabbia, 13 anni dopo l’ultimo incontro. Non ce lo aspettavamo neppure noi dello staff, che domenica mattina abbiamo allestito in tutta tranquillità la postazione per l’intervista da fare prima dell’evento. In tutta tranquillità non proprio: tredici caffè a testa e qualche massaggio cardiaco, perché oh, stava per arrivare il più grande di tutti. Tremarella per tutti, e pure forte. Comunque, il Re arriva. Noi proviamo i microfoni, sistemiamo le reflex. Finiscono le foto di rito, è tutto pronto.

Poi il quattordici. 

Prima di sedersi per l’intervista, Mao santa firma gli ultimi autografi. Tutti con il 14, il numero che indossava in nazionale. Non è un caso per uno come lui: l’appartenenza è tutto, perciò in qualsiasi parte del mondo O Rey lascia un segno del suo Brasile quando firma. Gli facciamo notare che anche sulla t-shirt celebrativa dell’evento OscarIsBack c’è il suo autografo con il 14. “Certo, questo è il mio numero” ci risponde con un ghigno. 

“Prego Re, accomodati”. 
“Chi fa le preguntas?”. 
“Io”. 
“Va bene”. 



Dopo aver accettato, senza molto entusiasmo, che sia io ad intervistarlo, il Re si accomoda sulla poltrona presa in prestito dal presidente Iavazzi. Ma nell’espressione del viso c’è qualcosa di diverso e lo notiamo tutti, subito. Penso: sarà la stanchezza. Quindi, dopo l’intro, procedo con la più banale delle domande d’apertura: come stai? 

Banale, la sua risposta, proprio non lo è. Così in un amen, Oscar torna indietro di quasi trent’anni e comincia a raccontare di quando il presidente Maggiò lo trattenne a Caserta, respingendo l’assalto del Real Madrid, che voleva portare la Mano santa in Spagna con un triennale che avrebbe fruttato al brasiliano gli stessi soldi che all’epoca, sempre al Real, guadagnava Dražen Petrović. Quelle due macchine da guerra, vincenti com’erano, avrebbero conquistato tutto in scioltezza, insieme. Ma il Re rimase nella sua reggia, con un accordo per quattro anni che la Juve, però, non ha rispettato. E questo ha fatto imbestialire il signor Schmidt, e lo fa imbestialire tuttora. 

Dopo la morte del Cavaliere e l’ennesima disfatta della Phonola ai playoff, Oscar venne letteralmente mandato via. Tutto si decise nella cena successiva all’ultima sconfitta stagionale, maturata in casa – indovinate di chi? – della Scavolini Pesaro. Anche in quell’occasione il Re non segnò poco: 37 punti, più di Gentile ed Esposito messi insieme. Ma alla fine, il capro espiatorio divenne lui. “Un complotto dei giocatori”, dice il Re con il fuoco negli occhi. E in più, una clausola contrattuale lo obbligava a lasciare l’Italia, o scendere di categoria. Lui scelse di restare nel Belpaese a cui era tanto legato, al pari della moglie Cristina. Digerendo a fatica – per usare un eufemismo – l’esilio forzato da Pezza delle noci. 

Lo sfogo che Oscar ha avuto davanti alle telecamere – come con noi anche con Paola Ellisse per SkySport, idem con Ettore De Lorenzo per la Rai – gli è servito per mettere in chiaro alcune cose. Ma non per sbollire quella rabbia che porterà ancora dentro. Perché per uno come lui le sconfitte pesano molto più delle vittorie. 

Qualche altro autografo, qualche altro quattordici, e poi di corsa sul parquet. 

Infine il diciotto. 

Lo speaker, sempre lui, l’inimitabile Gennaro Mercogliano, annuncia il suo nome. 

“Eeeee con il numero diciooooottooooo… Oscaaaaaaar”. 

Il Re sfila sul suo parquet, saluta i suoi tifosi, riceve la cittadinanza onoraria e celebra l’ingresso nella hall of fame italiana. Al termine di una partita brutta da vedere, entra nel suo tunnel, torna a visitare il suo palazzo, si trattiene con il suo amico Carlo Giannoni e con il suo coach Boscia Tanjevic. Poi parla ancora in conferenza stampa nella sala Clinic, con i giornalisti casertani. E quando è calato il buio a Castel Morrone, va via, ricco di emozioni. 

Oscar sarà il Re di Caserta fin quando esisterà Caserta. 

Verrà ricordato perché piangeva e faceva canestro, certo, ma anche per la sua capacità di fare canestro e far sorridere. Per i pugni agitati verso la curva, per la canotta numero diciotto ritirata, per la bontà d’animo mostrata anche fuori dal campo, per aver scelto Caserta prima di tutto il resto, anche prima di soldi e trofei. Per la passione verso l’allenamento. Per l’amore dato e per quello messo in circolo nei confronti della pallacanestro, in una città che di pallacanestro dovrebbe poter vivere per l’eternità. 

Oggi ci tocca metabolizzare le sue parole, incassare un pugno nello stomaco e soffrire perché quello scudetto lo abbiamo vinto senza di lui. 

Ma quando un giorno avremo assorbito questa rabbia, noi sorrideremo, come fa lui, consapevoli di essere riusciti a rendere monocromatico il cuore, originariamente colorato solo a tinte verde-oro, dell’uomo che ha segnato più di tutti gli altri cestisti mai esistiti in questo universo. 

Marco Petriccione

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